La minaccia di Pippo, le oche e Radio Londra

In quel paesino della Brianza, ad una ventina di chilometri da Milano, gli echi della guerra arrivavano attutiti, ma arrivavano. Fui molto colpito dalla tragedia legata al bombardamento della scuola di Gorla, alla periferia della città, durante il quale morirono quasi 200 bambini delle elementari, più tutte le loro insegnanti. Noi sentivamo l’eco dei bombardamenti lontani, diretti principalmente contro le grandi fabbriche situate allora in città, dalla Pirelli alla Breda, dalla Falck all’Alfa Romeo, dall’Innocenti alla Bianchi.

Su di noi incombeva invece, nella notte, la presenza di Pippo, quel piccolo aereo incaricato di bersagliare ogni luce visibile sul terreno. Avvistato ogni più piccolo chiarore, lo si sentiva scendere in picchiata e scatenare le raffiche di colpi delle mitragliere. Io ne ero terrorizzato ancora di più di quanto avevo patito a San Felice. Quando ciò succedeva, passavo il resto della notte sveglio, con l’orecchio teso a captare altre avvisaglie del suo arrivo.

Nei primi tempi del nostro arrivo a Birago, papà aveva preso l’iniziativa di scavare un piccolo rifugio antiaereo a ridosso del terrepieno sul quale era costruita la casa. Una semplice buca rettangolare, profonda un paio di metri e coperta da robuste tavole di legno. Non so quanto potesse essere efficace, e per fortuna non avemmo l’occasione di utilizzarla. Io comunque la sfruttai per farla sede dei giochi di guerra che organizzavo con i miei compagni. Di questi, ricordo il nome di uno solo, Nicola. Aveva uno o due anni più di me ed abitava in una casa di cortile accostata alla cascina dei Monguzzi. Facevamo la lotta e ci sfidavamo con le classiche spade di legno, allora facili da assemblare con un paio di listelli e un po’ di corda.

A scuola andavo logicamente al mattino e tutto il pomeriggio era libero per scorrazzare nel giardino o nei campi posti in prossimità della cascina. A poca distanza c’era anche il cimitero, dove era stato sepolto mio nonno e spesso la nonna mi portava quando aveva da sistemare i mazzi di fiori sulla tomba. Ricordo che in quei tempi, nei giardini delle case c’erano sempre piante di ortensie e di dalie, fiori che mi sembra siano stati ora completamente dimenticati. Sono evidentemente passati di moda. E nel giardino, e un po’ dappertutto, era sempre un pullulare di insetti di varie specie; una miriade di mosche, logicamente favorite dalla presenza di molte stalle e tanti animali. E poi, farfalle in quantità, e gatte pelose, scarabei e formiche, e lombrichi nel terreno umido (bastava scavare un po’ per trovarli immediatamente). Tutte specie din animali che la moderna agricoltura, con l’abbondante uso dei pesticidi, ha provveduto a sterminare.

Per farmi passare invece in casa i brevi pomeriggi dell’inverno, e visto che di compiti a casa ce n’erano allora ben pochi – ad esclusione del mandare a memoria qualche poesia del Pascoli o del Carducci – i miei genitori avevano chiesto alla signora Bergsmann di darmi qualche lezione di tedesco. Cosa che si protrasse per tutto l’anno scolastico fra il 44 e il 45. Questa decisione fu provvidenziale perché, terminata la guerra e non essendoci disponibilità di posti nelle scuole pubbliche di Milano fui iscritto, per frequentare la quarta, alla Scuola Svizzera di Milano dove mi accettarono in prova per un trimestre, per valutare se le mie conoscenze di tedesco erano sufficienti per continuare quel corso di studi, che prevedeva che molte materie venissero insegnate da professori di madre lingua tedesca. Così in tedesco venivano insegnate l’aritmetica, la storia e la geografia della Svizzera.

Riprendendo il racconto dal periodo di nostra permanenza a Birago, ricordo che c’eravamo, non so come, tutti i parenti riuniti per il Natale. In casa c’eravamo noi quattro, più gli zii Aleardo ed Alba con mio cugino Luciano, ed infine l’altro fratello di mio padre, lo zio Mario con la moglie Bice. Mi pare che noi bambini fossimo stati messi a dormire – testa a piedi – sul tavolo del soggiorno, con sedie e cuscini a protezione per eventuali cadute. E il pranzo di Natale era stato un pasto più ricco del solito, anche con una torta , logicamente di fattura casalinga.

Ricordo che in preparazione del Natale, le signorine Monguzzi avevano provveduto ad ingrassare un paio delle loro oche. Per fare questo, si mettevano il corpo del volatile fra le gambe per tenerlo fermo. Poi forzavano l’apertura del becco e, a viva forza, cominciavano ad ingozzarle con erba e insalate. Uno spettacolo straziante!

Fra le mie incombenze vi era, abbastanza spesso, la preparazione del burro. Ricordo che veniva messo del latte in una bottiglia di vetro o in un fiasco spagliato, opportunamente tappati. Bisognava cominciare ad agitare il contenitore in modo energico, sino alla formazione del burro.

Il processo era abbastanza lungo e impegnativo, perché occorreva metterci sufficiente energia e senza interruzione.

Fra i miei un po’ annebbiati ricordi vi era anche un viaggio fatto a Cadenabbia in visita agli zii ed a Luciano; sul come o quando eravamo andati, è però incertezza completa.

Alla sera, quando ci si ritirava in casa, perché era proibito uscire per il coprifuoco, si chiudevano gli scuri delle finestre per non far filtrare all’esterno la luce delle lampadine e si ascoltava, come facevano in modo clandestino molti, Radio Londra. La trasmissione iniziava sempre con una conosciutissima sigla sonora, un “Tun, tun, Tuun” piuttosto cupo e vagamente minaccioso. Proseguiva poi con comunicati e resoconti propagandistici e con i famosi messaggi cifrati destinati alle formazioni partigiane. Si sentivano scandire frasi senza senso, come “la capra è nell’ovile”, oppure “la sedia è impagliata”, che dovevano indirizzare il comportamento dei combattenti irregolari, dislocati alle spalle della linea gotica, o nel resto dell’Italia della RSI.


Indietro
  —  
Avanti