La vita quotidiana nel dopoguerra

Intanto, era cambiata la programmazione della radio. Dai comunicati di guerra e di propaganda, dalla diffusione di canzoni più o meno patriottiche, si era passati a temi più allegri e alla riproduzione di musica d’oltreoceano. Le grandi orchestre di Jazz, da Glenn Miller a Benny Goodman erano diventate notissime. E, in più, era stato per me una rivelazione la musica del boogie-woogie. Ero rimasto affascinato una sera che, da qualche parte vicino alla nostra casa di Birago una comitiva di giovanotti e ragazze si era esibita nel ballo, acrobatico e trascinante. Quello, mi sembrò allora, il simbolo dei nuovi tempi, della fine della guerra!!

La musica del dopoguerra era allegra e fracassona, il suono delle trombe e dei sassofoni era trascinante. Prima, ai tempi della guerra, ricordo che si ascoltavano canzoni affidate alle voci di Natalino Otto od Oscar Carboni, tutte vagamente soporifere. Cantavano “Villa Triste” o “Solo me ne vo per la città”… guardo fra la folla che non sa, che non crede al mio dolore, pensando a Te, sognando Te, che più non hooo……”

Era arrivata l’euforia e la spensieratezza, i tempi restavano grami, rimanevano problemi di reperibilità di cibo, vestiario, riscaldamento, e ci vollero almeno due o tre anni prima che i più assillanti venissero superati. Milano era in piena ricostruzione, la nostra casa di via Razza, che per fortuna non era stata danneggiata dai bombardamenti, veniva ricollegata al servizio di energia elettrica e di gas. Questo ci permise di lasciar Birago e di tornare in città.

Come ho già raccontato, le scuole elementari di Milano erano strapiene ed io non ebbi modo di essere iscritto; per questo motivo cominciai a frequentare la Scuola Svizzera di via Appiani, che era situata non molto distante da via Razza. Dovevo andare in viale Tunisia, svoltare verso piazza Fiume (poi ribattezzata Piazza della Repubblica) attraversarla obliquamente e, dopo un breve tratto degli ex Bastioni, svoltare a sinistra in via Appiani. Ero arrivato.

Come mi pare di avere già scritto, la mia esperienza di guerra non la ritengo conclusa con la cessazione del conflitto il 25 Aprile del 1945.

Vi fu infatti il relativamente lungo periodo del Dopoguerra, che passai fra Birago e Milano.

A Birago non mi ricordo di fatti sensazionali o degni di menzione, perché le acque si calmarono abbastanza rapidamente.

Al rientro a Milano, bisognava adattarsi alla ripresa della vita in città. I generi alimentari erano ancora razionati e distribuiti con le tessere. Spesso andavo da solo nei negozi di alimentari più vicini a casa, in via San Gregorio. C’erano il panettiere, il macellaio, il lattaio. Per il salumiere ed il droghiere dovevamo allontanarci un po’, verso via Lazzaretto o piazza Cincinnato.

Di particolare c’era, rispetto ai tempi successivi, che il latte veniva venduto sfuso ed occorreva portare con sé la bottiglia da riempire, che veniva poi chiusa con dei coperchietti di alluminio. Gli spaghetti erano in mazzi lunghi, avvolti in carta lucida, generalmente blu. Tipiche erano le carte d’imballo per la carne e lo zucchero. Per la prima veniva usata una carta ruvida e rustica, di colore giallo e che incorporava anche frammenti di paglia. Per lo zucchero usavano una carta azzurra, definita appunto “color carta da zucchero”. Spesso andavo anche dal tabaccaio, nel bar-tabaccheria in viale Tunisia, dal “Casalini” a prendere in bustine da 5 o 10 pezzi le sigarette per mio padre. Era allora un’abitudine abbastanza diffusa, che i pacchetti di sigarette venissero aperti dal negoziante, che poi le vendeva nel nmero desiderato.

In casa avevamo, come già ricordato, la luce ed il gas; niente riscaldamento centralizzato, perché la caldaia del caseggiato era stata messa fuori uso durante la guerra. Avevamo dovuto provvedere al riscaldamento con la stufa economica, installata in cucina. Aveva il corpo di lamiera smaltata e la piastra fatta di ghisa, con le aperture dei fuochi chiuse da vari anelli sempre di ghisa. Questi anelli venivano messi o tolti a seconda della dimensione della pentola che si intendeva usare.

Sul fianco c’era anche un contenitore parallelepipedo per lo stoccaggio dell’acqua calda. Lungo il tubo verticale di uscita dei fumi, il “cannone” erano previste stecche di metallo disposte a raggiera che servivano per stendere panni o strofinacci da asciugare.

Il riscaldamento dato dalla stufa economica non bastava logicamente per tutto l’appartamento. Nell’ingresso avevamo messo una seconda stufa, più piccola e anch’essa di ghisa, che dava, per quello che poteva, calore alla camera da letto dei miei, allo studio di mio padre e alla sala da pranzo. Per rinforzare la sua efficacia, il tubo di scarico, sempre “il cannone”, partiva dalla stufa e correva in alto, quasi a soffitto, lungo una delle pareti della sala. Scaricava poi i fumi all’esterno, attraverso un foro praticato nella parete perimetrale dell’edificio.

Ci si doveva accontentare, ma era un’abitudine abbastanza consolidata, che tutta la vita della famiglia si svolgesse al caldo in cucina. Anche chi ci veniva a trovare veniva ricevuto in cucina.

Nei mesi durante i quali il riscaldamento era spento, successe che dei passerotti facessero il nido nell’estremità del tubo della stufa dell’ingresso. Così ci capitava di sentire i passi dei piccoli della nidiata che si avventuravano lungo il tubo, cadendo talvolta anche nel corpo della stufa. Li recuperavamo e li posavamo sul balcone perché venissero soccorsi dai loro genitori.

E la fine della guerra, io la considerai coincidere col ripristino del riscaldamento e la cessazione del regime delle tessere alimentari. Con questo finì la guerra che avevo vissuto.


Indietro
  —  
Avanti