Il gioco e gli animali

Prima di passare ai fatti tragici che cominciarono a coinvolgerci dopo l’Armistizio dell’ 8 di settembre del 1943, voglio però fermarmi su ciò che un bambino di allora pensava, e su quali fossero gli stimoli che lo influenzavano.

Chiaramente, il gioco, e tutti i giochi. Sia quelli all’aperto, sia quelli di società che si facevano a casa attorno al tavolone della cucina. E poi, lo stimolo che veniva dal contatto con gli animali. Per me, che arrivavo dalla città, il ritrovarmi in un universo pieno di galline, di piccioni, di gatti, di cani e di buoi era un’esperienza entusiasmante ed avvolgente. Tenere nelle mani i pulcini gialli appena nati, od accarezzare i micini di una gatta domestica era qualcosa di unico, indescrivibile. E poi inseguire le lucertole, vedere nello stagno sotto il borgo il verde intenso dei ramarri, i salti delle rane o il volo a pelo d’acqua delle libellule era tutto, tutto avvolgentemente nuovo e bello. Mosche ce n’erano, e tante, ma di quelle non me ne curavo. In casa c’era in ogni stanza, appeso il nastro di carta moschicida e poi avevamo la paletta a rete per colpirle e schiacciarle!

Non era infrequente il caso di vedere le zuffe fra cani e gatti, le loro schermaglie, con i gatti che si alzavano, allungandole, sulle quattro zampe e curvavano la schiena ad arco per sembrare più grandi. E i loro soffi striduli contro il ringhiare sordo dei cani. Spesso non succedeva altro; ma spesso anche cominciavano furiosi velocissimi inseguimenti, col felino che si rifugiava su di un albero e l’altro sotto che abbaiava e saltava, senza alcun successo.

Le mie esperienze con gli animali raggiunsero il culmine per effetto di tre differenti avvenimenti.

Little owl (Athene noctua) two chicks on tree stump, Hertfordshire, England, UK (Mediastorehouse)

Il primo: mio fratello aveva trovato e raccolto, non ricordo in quali circostanze, due civette neonate. Le aveva portate a casa e le aveva messe, non so per suggerimento di chi, nell’unica stanza della casa che avevamo lasciato vuota, in fondo al corridoio. Gli avevano raccomandato di tenere la stanza buia e chiusa, cosa che avvenne. Bisognava però nutrirle, cosa che avveniva ad intervalli regolari, con la somministrazione di insetti vari, dalle mosche ai grilli, e vermi e vermicciattoli, che allora si trovavano in abbondanza.

La nutrizione delle due civettine era un momento particolare; mio fratello le prendeva una alla volta dal “nido” ricavato in una scatola di scarpe, le solleticava avvicinando al loro becco i cibo e, non senza una certa dose di pazienza e perseveranza, riusciva alla fine ad ottenere che mangiassero. Io assistevo, attentissimo, a ciò che avveniva. La cura dei due uccellini si protrasse per almeno un mese ma alla fine prima l’una, poi l’altra, morirono, con nostro completo e sincero dispiacere.

Il secondo: E qui già entriamo nel periodo segnato dalla guerra, perché ciò che racconto è in diretto collegamento con i fatti successivi all’ 8 settembre.

Lamberto

L’armistizio aveva portato al completo disfacimento del sistema legato al fascismo. Le caserme dei soldati si erano svuotate, i soldati scappati, gli ufficiali volatilizzati, gli uffici statali e delle amministrazioni locali allo sbando. Da una di queste caserme saccheggiate, non so chi aveva rubato un bel cavallo da sella, forse in dotazione all’ufficiale comandante. Mio padre aveva comperato il cavallo e l’aveva fatto portare in una delle stalle dove erano ricoverati i buoi dell’azienda. Lo montava, felicissimo, mio fratello ed io aiutavo ad accudirlo, a lavarlo, lisciarlo ed a prepararlo per la sellatura. Per qualche tempo l’animale fu a nostra disposizione. Alla fine, quando i fascisti ricominciarono a riorganizzare il loro sistema, la nobile bestia fu restituita all’esercito e la nostra parentesi di cavalieri finì.

Cesare e Lamberto

Il terzo: Malgrado le difficoltà di spostamento da un luogo ad un altro anche con i mezzi privati, o per mancanza o carenza di carburante, o per le sempre più frequenti incursioni dei caccia alleati, i miei erano riusciti a tessere una rete di rapporti sociali con persone abitanti anche a più di trenta o quaranta chilometri da San Felice. Faceva parte di questa cerchia due coniugi svizzeri di mezza età, che vivevano in un’altra località del Chianti di cui non ricordo il nome. Avevano una bella villa con giardino e possedevano una coppia di bellissimi cani da caccia, due setter dal pelo bianco e nero. Con mia grande gioia mi regalarono un loro cucciolo, cui demmo il nome di “Giachi” (forse la località dove abitavano i due svizzeri si chiamava Montegiachi o qualcosa del genere). Lo crescemmo con grande entusiasmo e, logicamente, il primo responsabile della sua cura ero io. Cresceva che era una bellezza, sempre attivo, scatenato e giocherellone. Restò con noi per più di un anno, fino a quando dovemmo regalarlo appena prima della nostra precipitosa fuga verso il Nord-Italia, nel giugno del 1944. Fu questo episodio che mi convinse, negli anni successivi, come fosse impossibile possedere un cane da tenere in città, in appartamento. La loro vera vita non poteva che essere all’aperto, in piena libertà di movimento, senza sacrifici o impedimenti.

Ecco quali sono state le mie esperienze con gli animali, che hanno lasciato un segno indelebile nella mia vita.


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