I mesi terminali del 43 ed i primi 6 o 7 del ’44 videro peggiorare la situazione legata all’approvvigionamento del cibo. In più era successo che nei boschi sopra San Felice si erano insediati e si aggiravano gruppi di ex prigionieri di guerra, prevalentemente inglesi ma anche neozelandesi e australiani che, usciti dai campi di prigionia subito dopo l’Armistizio, si erano dati alla macchia nel timore di venir di nuovo catturati dai tedeschi. Si nutrivano fruendo dello “spontaneo” aiuto che veniva loro dai contadini, dalle parrocchie o dai conventi (allora numerosi in quelle plaghe) e dormivano in casolari abbandonati o nei depositi degli attrezzi degli agricoltori.
Ricordo che in alcune occasioni si erano presentati inaspettati verso sera per chiedere un pasto caldo e mia mamma, aiutata dalla donna di servizio, aveva dovuto improvvisare una cena, dando fondo alle nostre già esigue riserve. Seduti al tavolone della cucina, quei 7 od 8 individui avevano mangiato e trincato il più possibile. Ogni tanto uno di loro, il più esaltato, sfoderava una baionetta che aveva recuperato chissà dove, chiedendo con insistenza altri rifornimenti. Ed alla fine se ne andavano, mettendo nelle borse pane, salumi, formaggi e quant’altro riuscivano a rastrellare.
E di questi episodi non se ne doveva parlare, perché i tedeschi erano troppo bellicosi e non era possibile immaginare quali conseguenze potessero uscire dalle situazioni che ho descritto.
Che il fronte della guerra si stesse avvicinando lo si poteva percepire dai sempre più frequenti voli di perlustrazione dei caccia alleati e dagli altrettanto frequenti passaggi, a quota relativamente bassa, delle formazioni di bombardieri americani diretti verso l’Italia Settentrionale o la Germania. Le squadriglie volavano disposte a rombo e le sentivamo arrivare precedute dal cupo, opprimente rombo degli innumerevoli motori. Era un “ron, ron, ron” che oscillava fra note basse ed ancora più basse. Ci voleva qualche minuto prima che il loro suono sparisse; ma, dopo qualche tempo, forse un quarto d’ora o al massimo mezz’ora, era il turno di una seconda squadriglia, e poi di una terza…..
Per noi non costituivano una minaccia, ma io ne ero rimasto scosso e veramente terrorizzato. Stato d’animo che conservai sino alla fine della guerra quando su Birago girava di notte quel piccolo aereo, che era stato chiamato “Pippo”, il cui compito era quello di impedire spostamenti notturni sia di soldati che di civili e dei loro veicoli. Là dove avvistava una luce fissa o in movimento, scendeva in picchiata e mitragliava. E io tremavo di paura e mi rifugiavo o sotto il letto o sotto il tavolo. E ne uscivo solo dopo che il rumore del suo motore era sparito.
Man mano che il fronte dell’Italia centro-meridionale si avvicinava, diminuiva l’attività dell’azienda di papà. Una parte dei suoi collaboratori era stato richiamato alle armi dalla Repubblica Sociale, o si era dato alla macchia per evitare di partire. Anche le commesse del Genio Militare erano diminuite. Di Lamberto avevamo notizie saltuarie e ci tranquillizzava sapere che era in Germania al campo di addestramento. Così non era impegnato al fronte.
Noi a San Felice eravamo praticamente soli. I parenti di papà erano da tempo rientrati a Lonigo. Mio nonno era nel frattempo morto a Birago e la nonna era rimasta sola. Gli zii Alba ed Aleardo, con Luciano, erano stati trasferiti dalla Banca di cui era dipendente lo zio a Cadenabbia sul lago di Como ed erano alloggiati in una camera di un grande albergo sul lungolago, messo a disposizione dalla Banca (la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde) per i suoi impiegati. Anche lo zio Mario, con la moglie, la zia Bice avevano lasciato Milano ed erano andati a vivere in Brianza, in un paese di cui non ricordo il nome.