Non ho ricordo che mamma e papà si disperassero per questa situazione, che li, e ci, metteva in così grandi difficoltà. Come ho già scritto, i collegamenti con il Nord-Italia erano stati completamente interrotti. Non circolavano più i treni; pullman od altro, idem.
Dovevamo comunque raggiungere Firenze, che era ad una quindicina di chilometri di distanza.
Il contadino che ci aveva ospitati trovò un suo conoscente, un vecchietto che, il mattino del giorno dopo, caricò noi tre ed i nostri bagagli su un biroccino (o calessino) trainato da un asino, e ci trasportò sino alla periferia della città, al capolinea di un tram. Con quello, arrivammo a Firenze.
Lì, trovammo ospitalità in un albergo del centro, dove restammo alcuni giorni che videro papà impegnato a trovare il modo di proseguire il viaggio.
Papà parlava un poco il tedesco e riusciva a farsi capire tanto che finalmente riuscì a “convincere” (evidentemente con l’esborso di molto denaro) due soldati tedeschi che, al mattino presto del giorno concordato, ci fecero salire sulla loro camionetta scoperta con la quale dovevano andare a Bologna. Il mezzo sul quale salimmo era quello che sarebbe diventato, a guerra finita, l’antenato della Volkswagen.
Il viaggio si svolse lungo la strada statale che saliva al Passo della Futa e poi scendeva verso la pianura. Per coprire il tragitto da Firenze a Castelfranco Emilia, un paese posto circa a metà strada fra Bologna e Modena lungo la via Emilia credo impiegassimo almeno tutta la mattinata. Ricordo che la giornata era soleggiata, calda e con il cielo sereno ma questo fatto poteva anche significare la possibilità di attacchi aerei. Infatti, spesso ci fermavamo e cercavamo di nasconderci, noi e la macchina, in qualche boschetto o, comunque, in qualche luogo che i soldati potevano considerare riparati. Per fortuna non subimmo alcun attacco.
Alla fine i due soldati ci scaricarono a Castelfranco Emilia, dove papà aveva un amico (mi pare si chiamasse Pasquinelli) che ci ospitò con la massima disponibilità a casa sua, posta proprio al centro del paese.
Ritornando al viaggio sulla camionetta, per me era la prima volta su un’auto scoperta. E, adesso che ci penso, in vita mia solo un’altra volta ho fatto un viaggio su una spider!
La sosta a Castelfranco durò ancora alcuni giorni e fu impiegata alla ricerca del modo di proseguire verso Milano. Questo fu reso possibile da un camion cassonato che caricò noi e diversi altri profughi con destinazione la nostra città. L’autocarro viaggiò, lentissimo, durante tutta la notte.
Dato che io ero il solo bambino del gruppo, fummo ospitati la mamma ed io in cabina, mentre tutti gli altri, compreso papà, viaggiarono sul cassone, seduti alla menopeggio su coperte o sui bagagli dei vari partecipanti. Non ricordo come avvenne il superamento del Po, dato che tutti i ponti erano stati bombardati e distrutti. Probabilmente in qualche luogo era stato gettato un ponte provvisorio di barche. Arrivati a Milano, ritengo che potemmo raggiungere in treno la nostra destinazione a casa della nonna Rosa a Birago.
Tutta l’odissea, da San Felice a Birago, era durata in totale 23 giorni! Ma era finita!
E qui restammo per tutto il periodo finale della guerra ed anche per alcuni mesi successivi, sino a quando il nostro appartamento di Via Razza 2 venne reso disponibile. Disponibile si, perché era stata ristabilita la fornitura di elettricità. Ma senza alcun riscaldamento e senza gas.