Sfollati in Brianza

A Birago, che era una piccola frazione del comune di Lentate sul Seveso, cominciò, e non lo sapevamo ancora, il nostro ultimo anno di guerra. Abitavamo in una grande casa, quasi all’inizio del paese. A poca distanza dall’edificio correva la strada statale dei Giovi, che collegava Milano con Como. Il gruppo di case lungo la statale si chiamava Camnago ed a Camnago c’era anche la stazione ferroviaria, delle FFSS, sempre sulla linea Milano-Como.

Eravamo inquilini della famiglia dei Monguzzi, che era formata da tre sorelle ed un fratello, tutti non coniugati. Il fratello, che si chiamava Luciano, si occupava della coltivazione dei campi di loro proprietà. Si spostava su un carro a due ruote, trainato da un bel cavallo. Le sorelle, la più anziana che si chiamava Bianca, quella di mezzo Valeria e la più giovane, Lisetta apparivano, ai miei occhi, delle attempate zitellone. Bianca vendeva lenzuola, coperte e biancheria intima. Valeria mi sembra lavorasse negli uffici comunali e Lisetta era casalinga, curando polli, tacchini, conigli e l’orto. Oltre a mia nonna, che aveva un appartamento di due o tre stanze al primo piano, viveva nel caseggiato anche una anziana signora polacca, la signora Gisella Bergsmann. Non ho mai saputo se fosse ebrea, ma viveva comunque in modo molto riservato. Non ebbe mai, però, alcun contatto o disturbo dai soldati tedeschi.

La casa si affacciava su di una piazzetta triangolare e all’estremità opposta vi era l’osteria del paese. Frequentata dai locali, per lo più contadini o falegnami (dato che la principale attività di quella zona della Brianza era la produzione di mobili), vedeva sempre accanite e rumorose partite al gioco della “morra”. Questo gioco prevede che i due contendenti abbassino contemporaneamente la mano, esponendo le dita , dichiarando contemporaneamente ad alta voce quale sarà il numero totale di dita calate. Era perciò un continuo sentire urlare “tri”, “quater”, “sett” e così via.

A settembre del ’44 io cominciai a frequentare la scuola del paese, iscritto in terza elementare. La mamma si occupava, assieme alla nonna, della gestione famigliare e papà riprese, come poteva, a dedicarsi alla compravendita di legname. Si era comperato una bella bicicletta (lui che fino ad allora era abituato alla guida di lussuose auto) e con quella teneva i contatti con le segherie ed i mobilieri locali. Una cosa che allora mi colpì era che fra i falegnami ve ne erano molti privi di una o più dita, o monchi di qualche falange, perché se le erano tranciate lavorando con la sega a nastro o con quella circolare.

Avevamo ricominciato ad avere qualche contatto per lettera con mio fratello Lamberto. Era tornato in Italia dalla Germania ed era stato assegnato alla difesa costiera a Portofino, dove però rimase per poco tempo. Fu trasferito in Piemonte, in provincia di Cuneo, e per l’esattezza a Pontechanale, nella Val Varaita, nel massiccio del Monviso. La sua compagnia si doveva occupare della difesa del confine con la Francia. Era di stanza in fondovalle, a circa 1600 metri di quota e in una postazione, situata proprio sulla cresta di confine, all’altitudine di quasi 3000 metri. Per quindici giorni al mese stavano in fondovalle, e per altri quindici giorni salivano in quota per alternarsi con i commilitoni. Quando salivano, dovevano logicamente portare i rifornimenti di viveri, di armi e munizioni necessari per la quindicina. Erano ospitati in una baita, opportunamente nascosta, poco sotto il crinale di confine. Di giorno e di notte si alternavano al servizio di sentinella, con ogni tempo e con il gelo dell’inverno. I suoi compagni erano tutti soldati di leva, e perciò più anziani di Lamberto ed erano quasi tutti veneti, di Bassano, di Padova e di altre località della zona.

Logicamente tutte queste informazioni precise le avemmo da lui quando, terminata la guerra, potè raggiungerci a Birago. Durante il conflitto tutto doveva rimanere riservato.


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