San Felice era ad una ventina di chilometri dalla città, e la si raggiungeva percorrendo tortuose strade secondarie. Il borgo era abitato da un centinaio di persone, quasi tutte dipendenti dal proprietario per il quale lavoravano la terra, curavano i vigneti e gli oliveti.
Noi abitavamo in una casa ad un piano, posta proprio di fianco al palazzetto del conte, che di cognome faceva Guarini Grisaldi del Taia. Non abitava a San Felice, ma ogni tanto lo si vedeva arrivare per soggiornare, lui e la famiglia, per qualche giorno.
Il periodo che va dal nostro arrivo a San Felice sino a poco prima dell’ 8 settembre del 1943, data dell’Armistizio fra l’Italia e gli Alleati anglo-americani trascorse abbastanza tranquillo. L’attività aperta da mio padre si svolgeva in modo frenetico, visto che la sua azienda poteva contare su più di 50 collaboratori fra boscaioli, conduttori delle coppie di buoi, trattoristi, autisti. Aveva più di 30 coppie di buoi bianchi, che servivano per trascinare i tronchi tagliati dalla loro posizione sino alla strada più vicina dove avveniva il carico del camion con rimorchio sempre di proprietà dell’azienda. Mio padre era sempre in movimento fra la città, i cantieri, le segherie destinatarie e tutte le settimane doveva recarsi a Cesena per ricaricare le bombole di metano per il rifornimento della sua auto, una, per me allora favolosa, Fiat 1500. Lo accompagnava sempre un giovane di Castelnuovo Berardenga che di cognome faceva Tognazzi ma lo si conosceva con il suo soprannome, il Morino. Gli faceva un po’ da autista, un po’ da tuttofare, un po’ da guardia del corpo, perché allora era imprudente girare da soli e non era infrequente che l’auto avesse qualche problema per guasti o forature. L’Orlando, questo era il nome di battesimo del Morino, rimase sempre affezionatissimo a mio padre e negli anni del dopoguerra venne regolarmente a Milano a trovare i miei. Fu presente anche al mio matrimonio. A loro volta i miei si adoperarono per ospitare ed aiutare una sua sorella, salita al nord per curarsi in ospedale.
A San Felice papà aveva fatto venire anche da Lonigo due suoi parenti, lo zio Nano, che svolgeva l’attività di capo operaio e una sua figlia, la Zoe. Rimasero per circa due anni e rientrarono poi in Alta Italia quando la situazione, per effetto degli sviluppi della guerra, stava diventando pericolosa. Vennero anche a trovarci per un lungo periodo mio cugino Luciano con sua mamma, la zia Alba e, per un tempo però più breve, le cugine vicentine, la Nene e la Grazia.
Come passavo il tempo a San Felice? Giocavo per tutto il tempo che si poteva, in strada con Luciano e con i bambini del posto. Eravamo un bel gruppetto, spesso anche abbastanza litigioso. Le nostre dispute si concludevano spesso a sassate, perché così si faceva. Ricordo distintamente che con una mia sassata avevo ferito alla testa uni dei miei antagonisti, mentre stava scappando. I giochi di gruppo prevedevano sempre la necessità di fare la conta, per creare le squadre o scegliere chi doveva smascherare gli altri che si nascondevano. Per la conta ci sedevamo tutti sul primo gradino della scaletta di accesso al palazzo del conte, stendevamo le gambe, allineandole, ed uno cominciava con la filastrocca che recitava così:
Pisto, pistugno,
nel mese di giugno
la bella pinara
che sale la scala
la scala baiù,
il piccion che
va laggiù,
va laggiù
alla fin del re,
un, due tre,
tocca proprio a TE!
E il bambino, sul piede del quale si era fermata la conta, andava, secondo il gergo, “sotto” e doveva, a seconda del gioco prescelto, stanare gli altri, oppure nascondere un oggetto, o impegnarsi in altre incombenze. Spesso invece ci sfidavamo a gare di corsa che si svolgevano nell’abitato della frazione, oltremodo minuscola. Aveva pianta pressoché rettangolare. Il lato nord ed il lato sud erano fatti da edifici allineati ed uniti gli uni e gli altri. Il lato ovest, che riceveva la strada da Siena, iniziava con una piazzetta sulla quale si affacciava il palazzetto del conte, la chiesetta che lo fronteggiava ed il frantoio delle olive e le cantine del vino. La strada scorreva di fianco al palazzetto e, uscita dal paese verso est, proseguiva verso Castelnuovo. Fra le due file degli edifici allineati il borgo racchiudeva tre altri piccoli isolati, formati da palazzetti singoli. Il primo isolato era quello della casa del Conte, mentre gli altri due erano di minore importanza.
Il campo di gara delle corse prevedeva: il primo giro attorno al palazzetto, il secondo attorno al palazzetto e al secondo isolato, il più lungo comprendeva anche il terzo isolato. E basta. Pericoli non ce n’erano; rare erano le auto, rarissimi i camion, più frequenti i carri agricoli trainati dalle maestose coppie di buoi bianchi dalle lunghe corna ricurve. Tutti i bambini del posto correvano scalzi; solo Luciano ed io indossavamo le scarpe.