Gli echi della guerra arrivavano attutiti. A San Felice non si vedevano soldati e gli unici che ogni tanto apparivano erano i carabinieri. A ravvivare la vita della piccola comunità vi era la vendemmia, la raccolta delle olive e, nell’autunno, la festa per l’assaggio dell’olio nuovo e la festa per la macellazione dei maiali e la produzione dei prosciutti e dei vari insaccati. Il pane veniva cotto nell’ unico forno a disposizione di tutte le famiglie. Era il tipico pane toscano, “sciapo”, cioè poco salato, e cotto in forme grandi e tonde.
Quando era il momento dell’assaggio dell’olio nuovo, il pane veniva tagliato a fette, strofinato con abbondante aglio e poi intinto (la fetta intera) direttamente nelle giare di terracotta. E il risultato era una delizia! I contadini accendevano un falò nella piazza e tutti cantavano e ballavano, o al suono della radio, o al suono di qualche fisarmonicista del posto o dei paesini vicini.
E vino ce n’era, in abbondanza. Preso dalle damigiane o dai fiaschi impagliati, visto che a quei tempi mai si sarebbe messo il vino in bottiglia.
A proposito del vino, devo riferire che San Felice era collocato nel territorio del vero Chianti e ad una decina di chilometri di distanza c’era il Castello di Brolio che apparteneva alla famiglia dei conti Ricasoli. Questi erano nobili di grande importanza. Un loro antenato era stato addirittura Primo Ministro del Regno d’Italia. Ciò non ostante, quelli di loro che eravamo andati a trovare, papà, mamma ed io, non si davano assolutamente delle arie. Ci avevano accompagnati nella visita alle cantine del loro rinomato vino, agli spalti del castello ed al magnifico giardino terrazzato che digradava verso la valle del fiume, che mi pare si chiamasse Arbia.
Altrettanto mitica era la festa per la macellazione del maiale. Arrivavano gli specialisti che, coadiuvati dai locali, in poco tempo preparavano tutto quello che si poteva ottenere dalla bestia macellata. Sfornavano prosciutti, salumi di diversi tipi, a grana più o meno grossa, lardi e strutto e, quello che più mi era rimasto impresso, un salume dolce fatto con il sangue dell’animale. Si chiamava buristo o buristu e l’avevo gustato ed apprezzato, dopo aver vinto la ritrosia dovuta al suo aspetto certamente non invitante.
Per finire la carrellata sul cibo, avevo potuto visitare anche un piccolo caseificio situato in località Bossi, ad un paio di chilometri da casa nostra, dove confezionavano ottime ricotte.
Anche se in molti altri luoghi d’Italia la gente era alle prese con i rifornimenti di cibo e la sua scarsità, noi in un paesino al centro di una ricca zona agricola, non ce la passavamo affatto male. Mi sembra però che anche da noi fosse stato avviato il sistema del tesseramento, per cui ogni individuo ed ogni famiglia aveva diritto ad una certa e prefissata quantità settimanale o mensile di generi di prima necessità alimentare. Fra i generi tesserati, ricordo un tipo di formaggio, chiamato “Formaggio Roma” di cui adesso posso domandarmi se fosse realmente un formaggio od un suo surrogato; tuttavia, a me piaceva. Ricordo che ciò che mancava era il caffè ed il tè. Si dovevano usare, come sostituti, il caffè di cicoria ed il karkadé. Non erano bevande di cui mi dovevo preoccupare, data la giovane età.
Fra i mezzi di sostentamento su cui la mia famiglia poteva contare vi era però anche l’uovo quotidiano che la gallina di mia mamma puntualmente ci sfornava. Mia madre la teneva in gran conto e spesso la elogiava in privato ed in pubblico. E spesso l’uovo toccava a me e me lo gustavo crudo, succhiandolo da un forellino che veniva praticato con un ago o un ferro da calza nella parte alta del guscio.